di Nicola Dal Falco. Val d’Orcia – Non ho nessuna simpatia per gli scalatori che arrivati in cima, si guardano subito in giro, osservando gli altri monti con un misto di invidia e cupidigia.
Invidia per chi li ha già affrontati e cupidigia per l’ansia di violarne presto i segreti. Trovo che, come in altre discipline ossessive, si annidi una coazione ad aggiungere, a vivere in una tappa permanente; una sorta di raptus “capitalista” dove non si rinveste in timore e meraviglia, ma nel piacere di possedere senza tregua.
Di fronte, invece, ad una donna che cammina non ho armi polemiche, al contrario, potrei farmi a mia volta conquistare. Una conquista facile come quella di una panchina al sole per ascoltare le storie che racconta.
Mi è successo con Nicoletta Martello, un’insegnante veronese, maestra alla scuola elementare di San Fatucchio, in riva al lago Trasimeno, campionessa di tiro con l’arco e cuoca.
La sua storia inizia nel 2011 e riguarda la scoperta casuale di un sito archeologico che potrebbe risalire al neolitico.
Da allora, Nicoletta non ha smesso di rendere visita al luogo, perso in un paesaggio collinare, in quelle pieghe della geografia che solo i camminatori apprezzano per la loro imprevedibilità.
Esiste anche un pudore dei luoghi che, straordinariamente, corrisponde al pudore che accompagna certe persone in cammino.
Una radiosa mattina di febbraio
La stoffa del camminatore te la ritrovi cucita addosso fin da piccolo come un segno particolare e non si tratta di una predisposizione fisica, ma di curiosità.
Chi l’ha in dote, ha a disposizione, sempre a portata di mano, l’antidoto all’inquietudine.
Esistono, però due tipi di camminatori: quelli con la testa tra le nuvole che avanzano rapiti dal paesaggio, pronti a sublimare ogni momento e ogni luogo, e quelli con gli occhi fissi per terra che ne scrutano i segni. Nicoletta appartiene al secondo tipo.
«La primissima immagine – ricorda – l’immagine guida risale a quando avevo quattro anni, a mio padre che ci portava in visita alla miniera della Pesciara, sui Monti Lessini. Ai pesci fossili di Bolca, si è, poi, sommato il naturale trasporto per rospi, pipistrelli, bisce, ricci, insetti stecco, insetti foglia, blatte, ma anche conchiglie, sassi, pigne… Nature morte e vive con cui assaporare il tempo magico della scoperta e della conoscenza.
«Preferisco la campagna alla città e anche quando vivevo a Verona, i miei posti erano lungo l’Adige o a San Giorgo Ingannapoltron in Valpolicella.
«Con i miei figli ho sempre giocato al gioco dei piccoli tesori, vedendo cosa ci regalava la strada. In questi giorni, la mia classe è in fermento per la nascita delle mantidi e proprio ieri l’altro, passeggiando da sola dalle parti di Parrano ho trovato una pietra che potrebbe essere steatite, simile a quella usata nel paleolitico superiore per scolpire la Venere verde, ritrovata alle Tane del Diavolo».
E di camminata in camminata, una mattina radiosa di febbraio, con il cielo turchese, più profondo del solito, in una luce che disegnava i dettagli, lo sguardo di Nicoletta si posò su di una pietra dalla forma bizzarra.
Tra le biancane di Lucciolabella
«Stavamo passeggiando tra le biancane di Lucciolabella – continua a raccontare Nicoletta Martello – in una zona chiamata Foce, dove affiorano argille risalenti al Pliocene, a cinque milioni di anni fa. Ero insieme a un amico naturalista, quando ho notato un masso tondeggiante, di grandi dimensioni, appoggiata sul fianco di un dirupo.
«Ci trovavamo su uno dei versanti della val d’Orcia, avendo di fronte la sagoma dolce e al tempo stesso severa del Monte Amiata.
Apparve subito evidente dai segni di lavorazione che non poteva trattarsi di un ghiribizzo della natura, dovuto all’erosione.
Il masso d’arenaria ha, infatti, una forma sferica schiacciata, paragonabile ad un’enorme ciambella, con un diametro di130 centimetri.
«Il suo aspetto richiama alla mente un bacino femminile con una losanga in rilievo nella parte anteriore, delineata da un canaletto e con un’incavatura longitudinale, in quella inferiore, che pare dividere perfettamente le natiche. Basta guardare certe sculture che ornano i templi megalitici di Malta, dedicati al culto della Grande Madre per trovare una somiglianza».
L’emozione della scoperta è stata tale che per una decina di notti, Nicoletta ha continuato a sognare le crete di Lucciolabella, di nuovo vive, affollate di persone,.
Un antico luogo di devozione?
A parte la suggestione del nome: Lucciolabella e il notturno gioco di specchi tra la luna e le biancane, sono molti i segni che contribuiscono al genius loci del posto. Poco più su, la collina culmina con dei banchi di roccia affioranti, cosparsi di coppelle a cui si aggiungono dei cippi e delle sfere levigate.
Inoltre, ad un chilometro in linea d’aria, accanto alle tombe etrusche, scoperte lungo la strada tra Castelluccio e Montichiello, si aprono delle piccole grotte dette Pocce lattaie da cui goccia dell’acqua satura di calcio e di colore biancastro che, secondo la tradizione, favoriva la montata del latte nelle puerpere.
«Forse, si tratta solo di suggestioni – sottolinea Nicoletta Martello – ma l’evidenza di questi oggetti, la presenza di frammenti di ceramica etrusca, romana e medievale sembrano proprio indicare che non si tratta di un luogo qualsiasi». In attesa che l’archeologia si sbilanci, conducendo delle indagini approfondite, Lucciolabella continuerà ad attirare come una calamita i passi di una camminatrice impenitente.
Chi volesse mettersi in contatto con Nicoletta Martello, commentando e approfondendo la “sua”scoperta può scrivere a neolitica1957@libero.it e intanto annotare la sua ricetta per il cinghiale.
«Secondo me non bisogna trattare il cinghiale come se fosse carne di vitello – spiega Nicoletta – e quindi la prima regola da osservare è di non farlo mai sobbollire prima per cancellare il suo quid di selvatico.
«Si lascia il cinghiale a bagno per una notte nel vino rosso, aggiungendo alloro, aglio, rosmarino, carota, sedano, cipolla, chiodi di garofano e due bacche due di ginepro.
«Nel mio caso, bisogna anche fare attenzione che sia lontano dalla portata di Frida, la gatta sciancata di famiglia. Scolato, si mette a rosolare con lo stesso tipo di odori, tagliate a tocchetti, aggiungendo nuovamente del vino rosso e del brodo di verdure. Deve cuocere lentissimamente fino a che la carne non si sfaldi sotto il mestolo».