di Nicola Dal Falco

Milano – Serata sospesa come capitano a Milano: afosa, frettolosa, taciturna.

Le voci per strada sono quasi tutte al telefono; anche un libraio continua a discutere nel suo piccolo televisore. Non c’è verso di chiedergli quanto costa quel libro. Un unico grigiore di toni e di movimenti a scatto. Il servizio giardini ha piantato siepi di rose, ma la scena resta irrimediabilmente ostaggio dell’ésprit géometrique, di questo fascio di prospettive urbane dirette fuori, verso la pianura, solido mare di aspettative, di crescite, di bilanci. Strade, case, menti occupate, costruite a novanta gradi: di qua o di là, in su o in giù. Scarseggiano curve e parabole, inciampi, sottigliezze, ripari provvidenziali. Solo dopo, quando annotta, l’ordinato naufragio si concentra in certi bar, la vita avvampa, battezzando, momentaneamente, una nuova isola di ricchezza, di ostentazione, di chiacchiere. A Milano, la ricerca di un’ansa, di un porticciolo, di un covo che ricrei sempre la solita sensazione di sospensione, di trionfo, la certezza di un destino qualsiasi, assume toni epici. Vere e proprie transumanze attraverso la città a forma di scacchiera, né bella né brutta, dopo che ne hanno interrato le vie d’acqua. L’altro giorno, però, la benigna potenza del caso mi ha portato in via Stampa. Strada breve, incassata, priva quasi di traffico, capace di contenere un incrocio, una piazza e una curva prima di cambiare nome in via Soncino. Come per il resto della città, lo scorrere del tempo, l’archeologia dei luoghi non si sviluppa in senso verticale, ma orizzontale. Non esiste un sotto, non c’è stratificazione, ma affiancamento di età, stili, manufatti. L’imprevedibile di via Stampa sta nel suo cambiar nome a metà e nell’insegna di un ristorante indiano. Sarla è un nome di donna, di madre, che puoi tradurre con Virtuosamente semplice, sciolta cioè da domini e pretese. E altrettanto barocca e semplice è stata la serata passata insieme a Sheikhar Reikhi.

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Sarla è un ristorante normale, per tutti i santi giorni. Un locale a cui affezionarsi nella ripetizione, nell’andare e venire secondo gli estri del palato. Il bello sta proprio nel non completo estraniamento da Milano. Nessuno sta sul punto né vuole catapultarci in India. Eppure, c’è qualcosa di segreto, un giardino da scoprire, un ciuffo remoto d’erba tra le rotaie.

Vale cosa dici

Premesso che la cucina è buona, che l’abbondanza in tavola non crea pesantezza, che il cibo scende con soddisfazione nello stomaco, sazia e vola via, conta veramente solo ciò che dici. Sheikhar Reikhi, da vero padrone di casa non rimane zitto, non dispensa sorrisi, non trasuda efficienza a comando, semmai parla, fissandoti negli occhi e dice, altroché se dice. Un oste premuroso, senza intrighi e, agli dei piacendo, un conversatore fluviale.

«Secondo le Upaniṣad – esordisce – il nostro corpo, involucro dello spirito, è un corpo fatto di cibo. Da ciò che assimiliamo e da come lo assimiliamo dipende la felicità, la comunione con gli dei e con gli uomini. Sacrificando piante e animali per alimentarci, assistiamo alla loro quotidiana resurrezione, ad un’energia che, trasferita, torna in circolo. Per questo, cucinare è un atto religioso, un gesto solenne di ringraziamento, necessario perché santo e santo perché necessario alla vita. I veggenti – continua Reikhicapirono che ad una sottrazione doveva corrispondere un dono più grande, una riparazione degna dei cieli che ci sovrastano. Perciò rifiutarono la crudità, retaggio animale, e inondarono i piatti di spezie in modo che gli esseri superiori gradissero gli effluvi, sprigionati dai cibi cotti. I profumi salgono al cielo, saziando i numi, e contemporaneamente rendono divini i banchetti sulla terra».

Divini anche perché le spezie, eccitando lo sguardo e l’olfatto, predispongono il corpo attraverso la mente, stimolando, poi, di boccone in boccone, i succhi gastrici e con essi il processo di digestione.

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Il focolare come un altare

La concezione indiana unitaria della vita si rivela anche attraverso la perfetta identificazione del focolare domestico con l’altare dei sacrifici. Nel ristorante Sarla, l’altare focolare è rappresentato dal forno cilindrico tandoor, originario dell’Ubzekistan, trasferito e poi perfezionato in India.. Le preparazioni tandoori hanno la caratteristica di essere prima marinate in una miscela di yogurt e spezie. Alle alte temperature del forno, tra i 600 e gli 800 gradi, lo yogurt evapora, il cibo resta tenero all’interno e il velo di spezie che lo avvolge sprigiona delicate fragranze. La cucina indiana è per definizione una cucina equilibrata, non necessariamente piccante, ricca di verdure, stuzzicante. Ecco, allora, che il discorso sfugge a qualsiasi, consolante, esotismo e da estetico si fa, inevitabilmente, etico, morale e civile al tempo stesso.

«La cultura del cibo è anche cultura dello spirito – riprende Reikhiuna via di purificazione. Purificare le parole dall’ira, dall’impazienza; non saccheggiare il presente, ma pensare il futuro; condividere le risorse, rispettare le differenze, incontrare le uguaglianze. Non fare come quelli che concentrano il potere in una città, in una classe, in un tempo, lasciando che il resto bruci: Londra, New York, Mosca… Damasco invece di Aleppo, Bagdad al posto del nord. Siamo esseri gregari, è l’amore latente che ci definisce, che ci eleva. Se, però, ci nutriamo di merendine, con il glucosio aumenta anche la soglia dell’aggressività, della competizione, dello scontro perpetuo. Se ci abituiamo a inumidire il cibo con l’acqua e non con la saliva, gonfieremo i nostri stomaci, arrancando più che camminando. Trentadue denti chiedono di masticare trentadue volte. Se il disagio contemporaneo fosse ridotto ad una semplice causa, questa si chiamerebbe stitichezza. Molto dipende dal transito intestinaleTutti i giorni – conclude Sheikar Reikhiprego, pronunciando devotamente due mantra. Sono il mio modo per stare al mondo, di accettare e godere l’offerta della vita.

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Il primo, Maha Mrtyunjai Mantra, non significa chiedere longevità, ma la vittoria sulla morte, cancellarne la paura. Massimo scopo è poter scegliere, con l’aiuto del cielo, l’ora e il giorno della partenza, lasciando il mondo con un sorriso. L’altro recita Ram Naam Satya Hai, il nome di Ram è verità. Raggiungere l’oceano senza sponde, questo è il senso della vita. Ciò che il fuoco non può bruciare e che l’acqua non può bagnare. Le nostre ceneri scenderanno nel fiume, giungeranno all’oceano ed evaporando ricadranno come neve. Cessato il respiro, resteremo nel vento, uniti al respiro universale».

Sarla

Ristorante Indiano

Via G. Stampa, 4

Milano

tel. 02.89095538

Incoming India