Nicola Dal Falco ci offre una pausa passionale ed elegantemente calda dedicata ad una donna che si chiama Dorotea. Per noi.
Dorotea di Nicola Dal Falco
Per la sera indossò un vestito nero, accollato, con un’interminabile lampo. Tra di noi le mani parlavano già senza ritegno. La corriera per Pesaro passava due volte ogni ora, ai dieci e ai trenta. Ci doveva portare alla prova generale della Cambiale di matrimonio di Rossini.
Il portiere del teatro le avrebbe strizzato l’occhio per lasciarci passare. Fatalità, anziché alle nove lo spettacolo era iniziato alle sei del pomeriggio. In cima alle scale, delle maschere premurose ci fecero entrare da una porta socchiusa per assistere agli ultimi dieci minuti.
Come l’opera in questione anche la struttura del teatro era leggera, volubile.
Nell’aria afosa, all’ultimo atto, la sala pareva un gran gazebo costruito su un’ansa del Rio della Amazzoni, vicino all’acqua nera e alle stelle che bruciano la volta del cielo.
Il virtuosismo dei cantanti, le loro buffe marsine, i lazzi, le mosse, il vorticare di archi lasciavano il grande silenzio di tutti i giorni fuori, nelle strade, sul mare, quasi si trattasse di un nuovo continente appena scoperto. Respiravo in una bolla di crome, attaccata alla panca del loggiato, dove si rifletteva l’universo di facce circostanti, il campionario di corpi, la musica che spettinava i cuori, arrossava i nasi come una brezza, faceva formicolare i piedi, allentava cinture, polsini, colletti, stringhe, busti…
Era come mangiare o restare sdraiati con la propria bella nel letto disfatto dalla tenerezza.
Attentammo al pudore nell’ombra dei giardinetti. Fu più un frugare che altro; per mascherare il desiderio, riconoscerlo, esasperarlo.
Come lasciare il piede in un formicaio o il dito incollato a un campanello. Ma era ancora una denuncia anonima, distruttiva, una prepotenza sotterranea che poteva anche ritorcersi contro.
Arrivò la corriera e in un quarto d’ora eravamo di nuovo all’incrocio dell’Adriatica, tra il ristorante e l’ostello.
La invitai a cena, perché non aveva mangiato niente, ma alla fine mangiai solo io. Alle undici ci servirono in fretta.
Dal mare non veniva alcun rumore e sul rettilineo della statale si succedevano lunghi spazi di silenzio. Calma assoluta. Se fissavo l’orizzonte non riuscivo a scorgere neanche le luci ballerine di un peschereccio.
Nessun suono o fatto, per quanto piccolo e ovvio, che segnalasse la vicinanza dei due elementi, la loro prossimità.
La terra lasciava semplicemente spazio al mare e il mare da parte sua sembrava voler offrire un’immagine di paradossale continuità. Dove finiva l’una continuava l’altro. Fu anche questa indifferenza suprema, metafisica che ci spinse ad occuparci ancor più di noi stessi.
All’ombra della notte, di una cielo offuscato, aggiungemmo quella di alcune barche tirate a secco.
Il vestito di lino, che l’umidità rinfrescava al tatto, salì fino all’anca, si aprì liberando le spalle e rimase incastrato all’altezza dei gomiti, stringendole dolcemente la vita come una cima ormeggiata. Il resto biancheggiava, profumando l’aria intorno, pesta di baci e carezze.
Aveva abbandonato la minuscola coda, i capelli le balzavano sugli occhi spalancati e le labbra senza rossetto. Ne restava un po’, una lacrima sciocca ai bordi del mento. Spinse la testa indietro, assaporai il collo teso, ne percorsi le brevi scanalature accanto al pomo che rimase sospeso, duro, sporgente.
Sentivo che i brividi si andavano allargando dietro la nuca. Era immobile con le braccia abbandonate lungo i fianchi. In quel momento, le spalle che dopo il primo lampo sembravano colorarsi di tiepida fiamma, di un oro segreto, aspettavano, convinte che a tutto questo sarebbe seguita una presa, un abbraccio.
Ci stringemmo con forza, umilmente, la fronte bassa, posando il cuore nel petto dell’altro e chiudendo il cerchio. Di nuovo sciolti solo per ricominciare daccapo.
È incredibile come si può conoscere in fretta una persona e come, in certi casi, i suggerimenti siano compresi al volo e accettati con entusiasmo. Quel seno ancora nascosto dal bordo del reggipetto rimaneva coperto, perché la base larga e tonda premeva contro il tessuto. A guardarlo dava un’impressione di caparbietà, di attaccamento alla vita.
Mi figuravo così i seni di Sherazade, l’eroica narratrice, pesanti ma non grossi, due arance discoste in modo da lasciare un piano, una piccola mensa, provvisti di capezzoli incapricciati, ma non cinici.
Due seni da succhiare, da tormentare, a cui aggrapparsi come all’ultimo capitolo. Ogni volta che tendeva la schiena riempivano la bocca, lasciando in gola un pugno di miele. Le piaceva e a me bloccava i pensieri; stavo lì legato ad un sospiro.
Poi toccò a lei, mi tenne con la mano inchiodato ai suoi occhi. Avevo i gomiti piegati e la sabbia nella schiena; la corda si accorciava con brevi colpi.
Passarono due coppie uscite dalla discoteca e lentamente riprendemmo una posizione più comoda. La febbre non era scesa, ma cominciava a farsi sentire il freddo. Camminammo sulla spiaggia sempre più cupa, posando bene il tallone.
Finalmente scorsi un grappolo di luci al largo. La consistenza dell’asfalto sotto i piedi schiarì i passio e i pensieri.
Parlavamo di niente e il suono delle parole assomigliava al ticchettio domenicale di una macchina da scrivere. Suonammo il campanello dell’ostello. Comparve nell’atrio il portiere. Accese una luce ai piedi delle scale, richiuse e senza fiatare riprese la veglia interrotta. Arrivati al secondo piano, il timer spense la lampadina; il neon sopra il pianerottolo ebbe ancora un sussulto, ci fu un ronzio, poi il chiarore della luna disegnò perfettamente il riquadro della finestra.
Rimanemmo a guardarci come due ladri sorpresi da un rumore.
Durò poco, perché ritrovammo la via delle carezze insieme all’irruenza non usata sulla spiaggia. Il vestito risalì ancora fino ai fianchi mentre appoggiavo le spalle al muro, Potevamo sentire il respiro di quelli che dormivano nelle stanze. Mi passò le gambe intorno alla vita. Si mosse senza esitazioni. Con una mano la sorreggevo, con l’altra la incitavo, premendo il palmo sulla nuca e il collo. Uscirono delle parole soffocate. Addentai un lembo della manica, ma ringoiammo ogni piacere. L’attesa non contava più.