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di Nicola Dal Falco Castelluccio di Pienza – Poteva contenere acqua o vino a scopi rituali e faceva parte del corredo funerario, ritrovato nella tomba 704 della necropoli di Tolle, sopra il valico di La Foce che collega la Val d’Orcia con la Val di Chiana. Era lì dal VII-VI secolo avanti Cristo, custodendo in un secondo vaso le ceneri del defunto. La bellezza del luogo in cui venne seppellito, lungo il crinale di una collina, oggi un querceto, da cui s’invola la vista verso il Monte Amiata, è pari al racconto straordinario, scandito sui fianchi e il coperchio del vaso di terracotta, esposto nel Museo Civico Archeologico di Chianciano Terme 1).

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È il racconto di un viaggio, l’ultimo, incognito, itinerario che dalla morte conduce nell’aldilà. Alla visione del dopo, divisa in due scene comunicanti, ma distinte, la forma del vaso aggiunge l’idea di una salita. La via che si apre ai defunti non solo è ripida, è anche costellata di insidie. La figurina, che sale lungo il fianco del vaso, avanza, sporgendosi nel vuoto, aggrappata, mani e piedi, ad un intrico di forme. Sullo sfondo affiora un bestiario fantastico, una catena di corpi, formata da una prima linea di creature alate, viste di profilo e poi, da una seconda dove le teste si staccano dalla superficie, protendendosi in avanti e volgendo verso lo spettatore il becco aperto. Queste creature assomigliano a grifoni. Antico simbolo regale e funerario, nato dalla fusione di due animali solari, il leone e l’avvoltoio.
Una delle loro funzioni è quella di guardiani della soglia, del limite tra umano e non umano. Un dettaglio colpisce a prima vista ed è la totale somiglianza tra la testa della figurina che si arrampica sulla vetta del mondo e quelle dei grifoni. Identiche le une e le altre per forma e postura.
Fino al bordo superiore del vaso, la corona di bocche spalancate sembra riecheggiare un grido celeste, nel quale, a sua volta, si fonde il grido di chi sta affrontando la scalata.

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Un grido che sale verso l’alto e uno, centuplicato, che rimbomba in basso, dominando il silenzio della morte e, paradossalmente, il suono remoto della vita.
Al di là, nel senso proprio e figurato dell’espressione, oltre la parete verticale, selva vivente di mostri, il coperchio chiude la visione, chiarendola.
Quattro grandi animali, due grifoni e forse due centauri, con le teste ritorte all’indietro, quasi a indicare con lo sguardo il tragitto compiuto, si alternano a quattro figurine sedute. Quest’ultime rappresentano i viandanti, giunti finalmente alla meta, quelli che ci hanno preceduto, affrontando il medesimo viaggio.
Grifoni, centauri e antenati sono disposti a raggiera attorno ad un uccello acquatico, vera e propria navicella in attesa, che segna il balzo in direzione di un sacro altrove.
Nella comunanza di tratti del volto tra le figurine umane e gli animali fantastici sta, forse, celato un aspetto che potremmo definire liturgico. L’intera impresa sembra, infatti, precisarsi proprio nello scambio fisiognomico tra defunti e guardiani della soglia.
A mano a mano che si penetra nell’aldilà, cambiano i connotati e le bocche spalancate, i becchi protesi, si aprono non solo a lanciare un grido liberatorio, ma quasi a reclamare un cibo diverso, d’altra e più sottile sostanza. Infine, per un gioco di coincidenze, il toponimo Tolle deriva, vista la sua posizione geografica, dall’etrusco tular che equivale a confine.
E il tema iconografico di questo vaso descrive, appunto, il superamento di uno specifico confine, immateriale e universale.

1)Una descrizione puntuale del vaso, si trova in Studi etruschi vol.LXXVI – MMX-MMXIII- (Serie III), Istituto nazionale di Studi Etruschi ed Italici – Firenze, a cura di Giulio Paolucci; Giorgio Bretschneider Editore