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Gavino Lo Giudice e Anna Fava ad Olio Officina 2015

 

La vita segue strane giravolte, non sta ferma, ma alla fine sei quello che fai e anziché parlare di irrequietezza è molto, molto più interessante vedere se colpi di scena, traslochi, nuovi lavori non siano che l’ombra della stessa persona, dello stesso profilo, ombra che cambia a seconda dell’ora, del tempo, tra il declinare e il sorgere della luce.
Ho avuto questa sensazione, incontrando Gavino Lo Giudice, capace di sciorinare un intero rosario di esistenze, tutte diverse e nessuna fuori luogo, appiccicata, troppo suadente o meschina.
Alla fine arriveremo anche all’olio, parleremo dell’uliveto e del modo di trattare la terra: se farne bottino o guardarla vivere per ciò che dice in maniera sommessa e al tempo stesso assordante.

Il 26 dicembre del 1992, Lo Giudice parte per la Bosnia. Fa il fotografo, lo fa per la rivista americana Esquire, nata negli anni Cinquanta; una rivista che, allora, aveva diverse redazioni in Europa, una della quali a Roma.
Parte e vede la guerra, la guerra che si manifesta sia attraverso il massacro improvviso, li scontri più o meno lunghi e brutali sia attraverso l’inedia del vivere, il progressivo, totale affievolirsi di scopi, relazioni, abitudini. Aspetti vitali che stanno alla guerra non come il dolore alla gioia, ma piuttosto come il fondo di un pozzo alla vista dell’orizzonte, alla percezione di stare tra un qui e un poi, nel paesaggio, nei ricordi, nei desideri, nell’attesa stessa della vita.

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Centro profughi a Zenica, Bosnia Herzegovina.

 

Passa un capodanno, un’epifania e un carnevale al di là dell’Adriatico e torna a casa il 24 febbraio 1993.
«Chiamo in ufficio – ricorda Gavino Lo Giudice – dicendo che le foto, bianco e nero e diapositive, sono pronte tra una settimana e mi sento rispondere che, nel frattempo, dall’America avevano deciso di chiudere la redazione. Un danno collaterale, provocato dalla crisi internazionale dell’editoria. Non tutti sanno, però, che a circolare negli anni successivi saranno sempre le stesse foto scattate dagli inviati in quel breve periodo».
Per Gavino, il mestiere di fotografo è iniziato a ventitré anni, nel 1982, salendo dalla Sicilia a Roma, con l’idea di fare architettura, sostituita quasi subito da un corso di fotoreporter che gli schiude prima il mondo della cronaca romana in tutte le salse, dalla politica allo spettacolo, al jazz e poi quello dei reportage, soprattutto in Europa.

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Fiera del bestiame a San Fratello Messina 2000

 

Per diversi anni, il nomadismo del fotografo diventa integrale, sposandosi con la vita in camper, anzi per la precisione in un furgone trasformato ad hoc. Anche la motocicletta si sposa ad un stile di vita mobile, improvvisabile secondo l’estro e la necessità. Tra i servizi fotografici ce n’è uno in Sicilia emblematico che racconta le ultime fiere bestiame, cancellate dai regolamenti europei. Fiere che si svolgevano nei boschi e sulle spiagge dopo un viaggio notturno di uomini e animali.

Un paese sul monte

Poi, nel 2005, Gavino arriva a Letegge, piccola frazione di Camerino, alle pendici di uno dei monti Sibillini. Un monte dal profilo allungato, ovale, in cima al quale si estendono i prati di Serrapetrona. Qui, vive una minuscola comunità dove, ogni tanto, ai vecchi abitanti si aggiungono nuovi venuti, che vengono immediatamente adottati.
Il paesaggio severo e bello consente di pensare diversamente i propri bisogni, di scegliere altre scale di valori.
«Faccio pure il ferracciaio – sottolinea Gavino – cerco e vendo metalli. A volte, come succede per l’albero motore di un trattore, riesco a guadagnare anche cento euro, arrotondando con il lavoro in fabbrica e le foto scattate ai matrimoni.
«Naturalmente, a Letegge tutti avevano un orto, ma solo il mio produceva in maniera sorprendente, surclassando i risultati degli altri. Un successo immeritato visto che, senza saperlo, avevo seminato su un vecchio letamaio. Questo, si può dire, fu il mio primo, serio contatto con la terra».

La stessa magia

C’è, mi dice «una sottile relazione tra la fotografia e l’agricoltura, tra il vecchio modo di stampare e i movimenti del campo». Un nesso rappresentato dalla magia del foglio che, immerso negli acidi, lascia affiorare i dettagli e il tempo vegetale durante il quale la natura si prepara per poi mostrarsi in tutta la sua gloria.
A questo punto, occorre solo che la metafora si tramuti in una qualche occasione. Questa capita quando Rosalia Teresa, madre di Gavino, eredita un uliveto vicino a Castelvetrano. I tre figli non paiono interessati e preferirebbero vendere, ma nessuno acquista.
Poi, Gavino girovagando sul web scopre che a Campello sul Clitunno si svolgerà un corso di potatura e olivicoltura; più per il posto che per l’argomento decide di andare, ma «lì – ricorda Gavino – scopro Giorgio Pannelli, il guru dei potatori italiani, promotore del campionato italiano di potatura e Paolo Guelfi un agronomo di grande valore, insegnante eccellente, timido e gentile».
La fortuna si è mossa e al fotografo non resta che indossare i panni dell’agricoltore.

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Uliveto

«La mia prima impressione però– racconta Gavino – è un brutta impressione sia per l’uso criminoso che si fa dei fitofarmaci sia per quello non meno disinvolto dell’aratro in un ecosistema delicatissimo».

Ho smesso di arare

«A Castelvetrano, dove abbiamo l’uliveto – continua Lo Giudice – la terra è un tavolo da ping pong, su cui si alternano venti di scirocco da sud-est e di maestrale da nord-ovest. Un fenomeno che sposta grandi quantità di terra. Se aggiungi il fatto che le previsioni a breve-medio termine indicano un’espansione della zona siccitosa pari al settanta per cento dell’isola ti rendi conto che qualcosa non funzione e che bisogna ripensare ogni gesto.
«Perciò studio e sperimento, traendo indicazioni dal botanico e filosofo Masanobu Fukuoka, secondo cui «non far niente è il miglior metodo agricolo», un paradosso che ha molti risvolti pratici.
«Ad esempio, per limitare l’effetto del calore e del vento non aro più, taglio e trituro leguminose, erbe e ramaglie, lasciandole sul terreno. Il mio scopo è di rendere autonomo l’uliveto, non di curarlo, ma di metterlo nelle migliori condizioni per svilupparsi e difendersi secondo natura. Il mio maestro di potatura è stato Francesco Bruscato, capace di sintetizzare in termini poetici il lavoro da fare. Lui dice che se l’ulivo è potato giusto si può intravedere tra i rami un passerotto.
«Inizierò ad utilizzare il corno letame, il preparato 500, che arricchisce di humus il campo, gli dà sostanza e lo alleggerisce. Ho, invece, dei dubbi sul corno silice, che l’agricoltura biodinamica utilizza per sviluppare la parte aerea della pianta, favorendo il processo di fotosintesi. Credo che alle nostre latitudini, potrei rischiare di bruciare tutto.
«Sta di fatto che da quando penso all’uliveto come ad un organismo in equilibrio con l’ambiente che lo circonda io stesso mi sento meglio e il terreno si ripopola di lombrichi».

Piante che ospitano insetti antagonisti

«Parlando, poi, d’attualità, della mosca delle olive e dei suoi effetti sull’ultima raccolto, posso dire che le mie olive non hanno subito danni. La loro polpa era molto più compatta di quelle nei campi intorno. E, forse, la soluzione più semplice è di ripristinare un ambiente che aiuti la nascita degli insetti antagonisti. Capperi e ginestrella per i nemici della tignola; acacia spinosa, giuggiolo, querce, agrumi e inula viscosa contro la bactrocera oleae; cardo, mirto e fico contro la cocciniglia».
Gavino Lo Giudice produce un olio, battezzato ‘a zzachìa, un termine che deriva dall’arabo e indica il solco d’acqua che corre nei campi, dissetandoli.
Il suo olio è un dop Valle del Belice in purezza, ricavato solo da Nocellara del Belice «che profuma d’oliva, erba fresca e carciofo, con una punta d’amaro e piccante».

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Oggi, Gavino si occupa del suo uliveto, trecento piante produttive che hanno una sessantina d’anni e cento giovani. A queste se ne aggiungono altre trecento, curate insieme ad un amico. Da poco, infine, è arrivata una consulenza per duemilasettecento ulivi.
A condividere la strada intrapresa dall’ex fotografo, a collaborare a questa rivoluzione culturale, c’è Anna Fava, già insegnante di lettere, viaggiatrice solitaria, tra i primi in Sicilia ad introdurre l’agricoltura biologica e successivamente quella biodinamica. Una presenza dialettica, una donna tosta, capace però di ascoltare a fondo.

di Nicola Dal Falco

Gavino Lo Giudice

  1. 4928895

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