di Nicola Dal Falco.
Rivedo Carla Vallotto all’aeroporto di Verona, di ritorno dai bazar di Istanbul, dove atterra con due valigie, gonfie e pesanti come quelle di un circo.
Nel salotto di casa, si apriranno, eruttando decine di cuscini (vuoti) non solo curiosi o belli, ma dotati ciascuno di una loro insopprimibile malia. Una pindarica collezione interetnica double-face che alterna su un lato lo stile onirico della manifattura indonesiana Ikat e sull’altro quello nomade-turcomongolo dei Suzani ubzeki.
La regola non è fissa, ma per la maggior parte dei cuscini è così anche se esistono esemplari tutti Ikat o Suzani.
Mi piace soffermarmi sulla scelta di giustapporre due stili, già di per sé debordanti, che vengono fusi nello stesso oggetto, creando si un’alternanza, ma anche una doppia, fiabesca, identità.
Mi ricorda quei racconti dove a ogni sorso aumentano gli effetti della pozione.
C’è però un equilibrio che solo il buon gusto sa regolare e dipende dall’accordo dei colori e dal gioco di consistenze dei filati.
Carla è un architetto d’interi, che ha fatto il Politecnico, lavorato per importanti studi a Milano e Berlino, ristrutturato appartamenti e case, con addosso il demone del viaggio.
La cosa non è secondaria, anzi, le scorre nel sangue.
«A un certo punto – dice – ho avuto la nausea della progettazione, un rigetto per gli studi d’architettura. Sono una viaggiatrice secolare, un’inguaribile curiosa. A scuola ero la più alta con i calzettoni sempre giù e già a quattro anni collezionavo stoffe, colori e carte. Non ho mai smesso e quest’attitudine a cercare in giro e riempire armadi è cresciuta fino a diventare un’occupazione senza orari».
Sotto le sue mani non passano solo i cuscini, il suo garage è ingombro di vecchi mobili, male in arnese, che poi vengono curati e rifoderati, ottenendo ancor di più un sontuoso effetto di straniamento tra il dejà vu e il pop.
È come se il trapianto di una nuova pelle sullo stesso corpo li rendesse atti a inaugurare tutte le possibilità di una vita, altre strade nascoste.
Non è solo un lifting, ma proprio la vita accanto che non sospettavi, celata ancora un attimo prima tra l’erba alta.
La prossima vita di una poltrona come il cuscino double-face ha poco a che fare con il sentimentalismo e molto con il nomadismo.
Ascoltare un po’ della storia di famiglia di Carla, ti scaraventa su di un treno o un piroscafo, lungo confini che si dilatano e incrociano; a Riga all’inizio della rivoluzione d’Ottobre, poi fuggendo in Prussia, a Berlino mentre stanno tirando su il muro, per finire in Perù e saltare ancora all’indietro, superando nuovamente l’Atlantico e raggiungendo il Veneto, segreta terra di viaggiatori.
Ti sembra, allora, di vedere Olga, la nonna aristocratica che abbandona sul nascere il mondo dei Soviet, si rifugia in Germania, da cui fugge nuovamente nel 1951 con Eveline che frequenta l’Accademia di Belle Arti e fa l’interprete. Andranno in Perù, dopo aver venduto tutto, riunendosi a due zii (un terzo sparisce nel vortice delle spie) che nel frattempo hanno impiantato una fabbrica di mobili a Lima.
Gente che non si spaventa, che ha un repertorio di almeno sei lingue a disposizione, compreso l’yiddish.
In Perù, Eveline, la futura mamma di Carla, fa la sarta, la stilista di moda e sfila come modella. Poi incontra un veneto, bell’uomo, ex giocatore di calcio, scappato dall’Italia per colpa di un padre, capitano degli alpini, troppo autoritario. Lui lavora nel settore minerario, si sposano e vengono in Italia, ma il papà non resisterà al richiamo del Sud America e la mamma, pur continuando a occuparsi del commercio di binari e vagoni per le miniere, si dedicherà alla pittura, mostrando un notevole eclettismo.
L’ultima parola di questa cavalcata tra generazioni è per Emma, la nonna paterna, la quale per suo diletto recitava Ruzzante.
Ikat e Suzani
Pur utilizzando tessuti di varie provenienze, inglesi, italiani, tedeschi, Carla ha una predilezione per l’Ikat e il Suzani.
L’Ikat, originario dell’Indonesia, è un tessuto che ha, per così dire, un’alta valenza psichica.
Le donne che lo tessevano e coloravano, utilizzando la cera per coprire di volta in volta le parti da tingere nelle successive immersioni, circondavano l’operazione dal più assoluto riserbo, rispettando fasi lunari e maree, celebrando i momenti salienti dell’esistenza, .
I fili dell’Ikat legano, insomma, la vita personale delle tessitrici al telaio dell’universo. L’Ikat, che secondo alcuni significherebbe “nuvola”, come questa avvolge l’anima che si trasferisce sulla tela attraverso il sogno.
Ciò che vediamo e tocchiamo sarebbero i sogni tessuti delle donne, una porzione di identità e di energia, rimodellata al di fuori della sognatrice.
Anche nei tessuti Suzani, provenienti dall’Ubzekistan , affiora il mondo femminile. Fanno, di solito, parte dei corredi, in dote alle ragazze. Il termine significa: ricamato ad ago e grande è la minuzia esibita per realizzare queste cosmogonie floreali, veri e propri cieli fioriti, campi elisi.
Due sono i simboli ricorrenti, la melagrana e il tulipano. Intorno alla prima si salda il rapporto tra il sopra e il sotto, tra la terra e gli inferi. Il seme rappresenta la fecondità e ha il potere di «far scendere le anime nella carne» potere ambiguo come insegna la storia di Persefone che per averlo assaggiato dovrà dimorare sei mesi all’anno nell’Ade.
Nella poesia persiana, la melagrana è associata al seno e un indovinello turco allude alla fidanzata come a «una rosa di cui non si è sentito il profumo, una melagrana non aperta».
Che dire,infine, del tulipano se non che il sultano, nelle Mille e una notte, lascia cadere un tulipano rosso ai piedi della donna prescelta quella notte come favorita?
Più della rosa, che si apre a raggiera, che anela a farsi ruota, il tulipano indicherebbe la pienezza inviolabile dell’amore, saldo nella sua purezza, verticale nel suo slancio.
Carla Vallotto
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