di Nicola Dal Falco
Lucca – Può capitare che un ristorante, in una stradina a due passi e nascosta, riesca per qualche magia a fondere il miglior garbo toscano e giapponese, servendo qualcosa in più, compresa una certa aria parigina per via della sala imbiancata con i tubi in vista e del giardino curato.
Almeno così era, perché il ristorante che ho visitato insieme a Carla Latini, qualche anno fa, condotto da Paolo Indragoli e da Yuriko Hirao, marito e moglie, ha cambiato di mano sempre in quella stradina a due passi da casa e nascosta.
I posti mutano pelle, ma il fondo delle persone non muta così spesso come si dice. Sei quello che fai e non ci sono chiacchiere e destino che possano cambiare la matrice del carattere e il modo di stare al mondo.
Vivendo ambedue in una città, piccola, un po’ altezzosa, cinta com’è «…dall’arborato cerchio» di mura «ove dorme la donna del Guinigi…» (Elettra, Gabriele D’Annunzio) ho incontrato spesso e con piacere, il viso sorridente di Paolo.
Per un po’, un acciacco lo ha tenuto fermo, ma poi si è rimesso a cucinare.
Qualche sera fa, mi sono seduto in un locale sotto le mura, non lontano dalla chiesa di San Frediano, sfruttando uno degli ultimi giorni in cui Paolo era ancora in cucina e ho riassaggiato la mano del cuoco.
Per primo è arrivato un piatto di spaghetti di semola Senatore Cappelli al ragout bianco di cicala con sopra un boccone crudo della stessa. Avrei, forse, preferito, la soluzione tutta fredda, per sottolineare meglio quella perfetta simbiosi di consistenze tra il ruvido della pasta e la tenerezza ultramarina del crostaceo.
Poi, con stupore è arrivato in tavola il cervo, non solo in forma di ricetta. Da un mare di scoglio sono passato di colpo a un bosco ceduo di media montagna.
Se per la cicala si può azzardare il termine purezza, per questa costoletta di cervo, cacao amaro, rape rosse e bianche con l’accompagnamento di una grappa invecchiata in legno, profumata lì per lì di foglioline di timo e di chiodi di garofano, l’effetto è quasi romanzesco.
Ho visto un cervo, appunto, e non lo ho neanche mangiato nel senso triviale del termine. L’ho assaggiato, avendo in bocca il sapore lungo della terra (rape bianche), l’umida fragranza del bosco (grappa, timo e chiodi di garofano) tra muschio e ciclamini e nella carne, il lato regale e religioso dell’animale.
Da pochi giorni, Paolo conduce le cucine della Caffetteria Ristorante San Colombano collocata in uno dei bastioni delle mura cinquecentesche di Lucca.
Andateci, chiedendogli magari se ha visto un cervo.
La ricetta della costoletta di cervo alla grappa e cacao
Ingrediendi per 5 persone
carré di cervo: 1 chilo
porri: 1
carote: 1
cipolle: 1
aglio: 2 spicchi
rapa bianca: 1
rapa rossa: 1
rosmarino: 1 rametto
cacao amaro in polvere: 1 cucchiaio
grappa di barbera: 1 dl
olio, burro: quanto basta
Procedimento
Pulire e cuocere le due rape separatamente. Tagliare a cubetti e tenere al caldo. Pulire con cura il carré di cervo e ricavarne 5 costolette. Tostare nel frattempo i ritagli del carré in olio e quando sono ben dorati, unirvi le verdure tagliate a mirepoix.
Cuocere le verdure, deglassarle con la grappa, lasciarle evaporare e unire il cacao. Versare due dl di acqua e lasciare ridurre a fuoco dolce. Quando è ridotto della metà, regolare di sale, passare allo chinois e legare con un cucchiaio di burro.
Tenere in caldo.
In un poco di olio rosolare a fuoco forte le costolette. Deglassare con un poco di grappa e finire la cottura in forno a 180 gradi per 4 minuti.
In un piatto di portata mettere un cucchiaio di fondo preparato precedentemente unirvi sopra la costoletta di cervo. Guarnire con 3 pezzettini di rapa rossa e 3 pezzettini di rapa bianca.
Accompagnare con un bicchierino di grappa aromatizzato con chiodo di garofano, pepe nero e timo.