La mostra a cura di Camillo Langone apre il 15 Settembre e dura fino al 21 Ottobre a Torino, Chiono Reisova Art Gallery, via Giolitti 51.
Ed ora leggete il testo del catalogo.
Buona lettura
L’ultima regione
Perché viaggiare quando esistono i quadri? Da pascaliano (da pascaliano particolarmente accidioso, a dirla tutta) sono convinto che una gran parte dei mali dell’uomo derivi dal non sapersene stare tranquilli in una stanza e dunque quando cominciai a interessarmi di Sardegna scelsi di non andare sull’isola ma di fare arrivare l’isola da me. Mentre gli altri affollavano aerei e traghetti io bevevo Cagnulari e tagliavo pecorino con un coltello di Pattada e leggevo Flavio Soriga e ascoltavo Iosonouncane. Ho la presunzione di aver capito di più dell’isola dei nuraghi di quanti passavano settimane sulle barche davanti Porto Cervo, magari pasteggiando a Franciacorta. Proprio dal vino (ovviamente non solo dal Cagnulari, anche dal Cannonau, dal Monica, dal Vermentino…) ho ricavato l’idea del carattere sardo. Fra le cantine sociali italiane mi fido solo di quelle sarde e magari di quelle altoaltesine, che però sono italiane per finta. Faccio una simile affermazione dopo assaggi innumerevoli, nessuno dei quali si è tramutato in delusione. Mi sono così convinto che il conferitore di uve sardo abbia un senso dell’onore più sviluppato, o meglio conservato, rispetto al conferitore di uve emiliano, per citare una regione che conosco bene. Sono stato fortunato? E’ possibile, anche se l’ampiezza del campione enologico rende la possibilità improbabile. Sono propenso agli stereotipi consolatori? Non direi proprio, sono più portato per gli stereotipi negativi e raramente mi spendo in grandi elogi.
I quadri sono arrivati dopo. Dopo il vino e il porceddu, il mirto e la bottarga, il formaggio e il fil’e ferru. E anche dopo i musicisti e gli scrittori. Un bel giorno mi sono accorto che dalla Sardegna stavano arrivando anche molti pittori. Si trasferivano a Milano non certo per avvicinarsi al mio domicilio ma perché vivere di un mercato dell’arte solo regionale continuava a essere impensabile e nel frattempo si erano smagnetizzate le calamite tradizionali dell’intellettuale sardo ossia Torino e Roma. La prima aveva attratto Gramsci e Francesco Menzio anche dopo la perdita dello status di capitale del regno di Sardegna, ma sto comunque parlando di cent’anni fa. La seconda, geograficamente più vicina, ha accolto i sardi ambiziosi (Grazia Deledda, Giuseppe Biasi, Emilio Lussu, Maria Lai…) in un arco di tempo più lungo, fino al secondo Novecento. Poi è giunto il turno di Milano, città prossima alla mia Parma e dunque non ho dovuto tradire platealmente Pascal, non ho dovuto allontanarmi troppo dalla mia stanza per ammirare moltissimi quadri sardi e conoscere autori il cui numero si è rivelato superiore a ogni ragionevole aspettativa. Per scrivere questo testo mi sono messo a fare calcoli ed ecco il risultato: la regione con più eccellenti pittori in proporzione agli abitanti è proprio la Sardegna (ancor più fitta di pittorici talenti sarebbe la Romagna, ma al di fuori dei suoi confini al suo status di regione ci credo soltanto io). Un primato quantitativo a cui devo subito aggiungere la peculiarità qualitativa alla base della presente mostra: la Sardegna è l’unica regione italiana i cui pittori hanno un comune denominatore. Nemmeno l’altra grande isola, la Sicilia, vede una simile compattezza poetica nei propri artisti. In generale nel mondo dell’arte già la provenienza nazionale tende a perdere significato, figuriamoci quella regionale. Secondo il politologo americano Robert Kaplan “la globalizzazione anziché cancellare l’importanza della geografia la sta rafforzando” e pertanto la crisi degli stati nazionali si accompagna alla rinascita delle regioni. Probabilmente è vero per alcuni aspetti, ma per quanto riguarda l’arte figurativa ho qualche dubbio. Si può parlare oggi di pittura lombarda, veneta, toscana? Riferendosi ai secoli scorsi senz’altro, riferendosi al terzo millennio solo se dotati di una notevole capacità di arrampicarsi sugli specchi. L’identità artistica sarda è dunque un’anomalia, una controtendenza, un fenomeno che fra l’altro non ha nulla di folcloristico e di residuale vista l’eccellenza dei risultati, l’ampiezza dello sguardo, la bassa età media dei suoi pittori. Si potrebbe dire che dalla regione italiana geologicamente più antica, i cui vulcani sono spenti da molti milioni di anni, proviene la pittura più nuova e più accesa, ma sarebbe soltanto uno slogan. Con più onestà ho creduto di poter dare al comune denominatore di questo gruppo di artisti la seguente definizione: Gotico. Gotico Sardo.
Naturalmente l’architettura gotica di tante cattedrali medievali non c’entra nulla. La mia accezione di gotico somma quella di Giorgio Vasari, ossia gotico come barbarico, quella del romanzo gotico inglese (spesso ambientato sulle coste dell’Italia meridionale), ossia gotico come romantico e tenebroso, quella della sottocultura goth sonorizzata da Bauhaus, Cure, Siouxsie & The Banshees, ossia gotico come dark e ipnotico. Con un rimando abbastanza inevitabile ad “American Gothic” di Grant Wood (1930), capolavoro di un altro regionalismo, contemporaneo e intimamente consentaneo di quel Giuseppe Biasi che mi piace considerare il capostipite dei gotici sardi di oggi.
Silvia Argiolas (Cagliari 1977) è gotica variante goth. E’ la Lydia Lunch della pittura italiana, dipinge donne dedite all’ozio, e conseguentemente al vizio, che ascoltano musica carica come il loro trucco. I gotici classici prediligono l’ambientazione del castello, lei del bordello, e dunque nei suoi quadri le maschere non sono di ferro bensì di stoffa o gomma. Oggi in Italia è la dominatrice della dark painting.
Antonio Bardino (Alghero 1973) è gotico variante Friedrich. Autore di quadri misteriosi e silvani, altro suo riferimento pittorico potrebbe essere l’altro paesaggista dell’estremismo romantico, Johan Christian Dahl: anch’egli, come Bardino, capace di essere nordico e mediterraneo al contempo. Intitolerei una sua personale “Il romanzo della foresta”, dal romanzo di Ann Radcliffe che fu la capofila della letteratura gotica inglese.
Nicola Caredda (Cagliari 1981) è gotico variante rovinista. Ma le sue non sono le rovine classiche del rovinismo settecentesco bensì quelle moderne della nostra civiltà percepita sull’orlo del crollo. Come colonna sonora dei suoi quadri così maledettamente attuali non penso dunque a Cherubini o Boccherini bensì ai foschissimi Beatles di “Helter Skelter”. Scrisse Guido Piovene che “il temporalesco si addice alla Sardegna”: a Caredda in particolare.
Silvia Idili (Cagliari 1982) è gotica variante magica. Lei è l’artista più legata alla cultura tradizionale sarda e ciò nonostante (o forse proprio per questo) i suoi lavori starebbero benissimo alle pareti di una galleria tedesca oppure belga. Seguace dell’arcano, lettrice dei libri di Cornelio Agrippa sulla magia cerimoniale e di Dolores Turchi sull’accabadora (macabra, ipergotica figura isolana), dipinge piccoli quadri perfetti come l’esito di un rito.
Giovanni Manunta Pastorello (Sassari 1967) è gotico variante barbarica. O barbaricina, se i termini sono sinonimi nella visione imposta dagli antichi romani che faticavano a colonizzare l’interno montuoso dell’isola. O variante Basquiat, altro pittore di mascheroni tribali circondati di parole. I personaggi di Pastorello sono re nuragici catapultati nell’epoca dei writer, o forse banditi incappucciati, comunque talmente etnici da diventare esotici.
Vincenzo Pattusi (Nuoro 1978) è gotico variante Frankenstein. Più nel senso del film del 1931, con l’indimenticabile Boris Karloff dal collo imbullonato, che nel senso del romanzo di Mary Shelley, maestra del genere gotico e creatrice del mostro. L’immaginario di Pattusi è cinematografico e vintage, i laboratori hanno strumenti d’epoca e gli esperimenti raffigurati sono al limite tra scienza e occultismo. Eppure si intuisce che gli scienziati pazzi sono ancora fra noi.
Giuliano Sale (Cagliari 1977) è gotico variante sardonica. Inizialmente prossimo al realismo magico, da qualche tempo realizza quadri di tono sarcastico, beffardo. I volti di Sale più che mascherati sono magistralmente deturpati e il deforme fa parte del repertorio gotico non solo cinematografico ma anche di quello letterario come ricordano i versi di Arrigo Boito: “Forse noi siamo l’homunculus / d’un chimico demente”.