Io c’ero di Edoardo Vianello

Tutto quello che mi va di ricordare dal 1938 ad oggi, in 83 anni di storia.

Prefazione
Guardandomi indietro e riandando con la mente ai momenti che hanno toccato i miei sentimenti, che hanno formato il mio carattere e che hanno determinato le mie scelte, sia quelle che si sono rivelate giuste che quelle che mi hanno complicato l’esistenza, mi sembra di aver vissuto in una favola, favola, di cui sono stato il protagonista .
Tutto quello che racconterò è realmente accaduto. Non ho avuto bisogno di romanzare gli avvenimenti, anche se qualcosa potrà sembrare attinta al mondo delle fantasie. Sono invece spaccati di vita reali con esperienze personalissime, delle quali sono stato un affidabile testimone, e pensieri che sono maturati nel momento dello svolgersi dei fatti. Ho investito tutta la mia capacità di ricordare, in ogni particolare, quello che…mi va di ricordare, e così sono riuscito a ricostruire quei capitoli della vita che mi è piaciuto vivere.
Mi chiedo se non sia così per ognuno di noi. Se esercitando la capacità selettiva di ricordare solo quello che ci va, non possiamo tutti guardare alla vita che abbiamo vissuto come ad una storia accettabile, magari una favola? Almeno vale la pena di provarci. Chissà che seguendo l’ordine dei miei ricordi, ordinati anno per anno, la mia personale favola non possa incrociarsi con la vostra e invogliare anche voi ad esercitare la vostra memoria a ricostruire e a rivivere i vostri momenti cruciali, confrontandoli con la cronaca di vita di una famiglia qualunque, in questo caso: la mia.
L’inizio di ogni favola è fissata convenzionalmente in “C’era un volta…”
La mia inizia semplicemente con C’ero…

1° capitolo. 1938
Porto lo stesso nome di mio nonno paterno, un brillante avvocato veneziano, l’avv. Edoardo Vianello appunto, e sono nato a Roma il 24 giugno 1938. Per pochissimo sarei potuto nascere anche io a Venezia, dove i miei genitori avevano vissuto fino a qualche mese prima, ma mio padre, impiegato alla Compagnia Aerea Transadriatica, presso l’aeroporto di Venezia Lido, fu trasferito a Roma, proprio all’inizio del ’38.
A Roma abitavamo a San Giovanni e più precisamente nel quartiere Appio, in via Etruria, nella stessa casa nella quale mia madre mi ha messo al mondo, come si usava a quei tempi, e dove ho vissuto i primi 25 anni della mia vita.
Naturalmente non ricordo nulla del mio primo mese di vita se non, a quanto mi dicono, che fui molto precoce al punto che appena nato imparai subito a piangere e ad urlare.
Gli altri mesi del 1938 passarono senza che io me ne accorgessi, ma molti giurano che a Natale avevo già compiuto sei mesi.
In una foto che sta nell’album dei ricordi di famiglia mi vedo completamente fasciato. Era un’usanza dell’epoca fasciare, nel modo più stretto possibile, i bambini. Il compito di farlo lo aveva mia sorella, in quanto mia madre aveva difficoltà a chinarsi nella culla. Con la fasciatura si evitava che le gambe venissero storte, questo almeno era il pensiero delle mamme, suffragato dai consigli dei pediatri. Guardandomi allo specchio In realtà ho le gambe dritte, però non ho nemmeno la prova contraria. Quel che è certo è che nella foto, più che un neonato, sembro una piccola mummia.
Non può essere che sommario il racconto di questo primo anno di vita, per mancanza di testimonianze dirette, ma vi assicuro che per i successivi tre o quattro anni lo sarà …ancor di più, perché le prime reminiscenze, che affiorano nel bagaglio dei ricordi, risalgono a quando avevo quattro o cinque anni.
Tutto quello che so dei miei albori ha come fonte di conoscenza i racconti della mia mamma. Non certo quelli di mio padre che era piuttosto chiuso e taciturno; e poi. in quel momento così critico per la situazione politica, con il rischio anche di perdere il lavoro, aveva ben poco tempo per memorizzare piccoli eventi familiari.
Perciò finisce qui il primo capitolo della mia storia. Ma potete esserne certi: continua

2° capitolo. 1939
Esordisco nell’anno con uno sfogo cutaneo sul viso detto lattime o crosta lattea, che normalmente scompare da solo e che invece su di me persiste più del dovuto. Soltanto dopo che la mia mamma mi porta al mare, e mi sottopone ad abluzioni con l’acqua di mare, comincio a guarire. Questo lo so perché ho delle foto che lo documentano: in una si vede benissimo la mia faccia piena di piaghe e in un’altra di qualche giorno dopo la faccia tutta liscia.
In estate percorro i miei primi passi e tento di dire <mamma, papà, tata>, per il resto ogni tanto colpetti di tosse, qualche linea di febbre, un po’ di capricci e quindi null’altro di diverso dagli altri bambini della mia età.
So che mamma per farmi addormentare mi cantava una ninna nanna dolcissima.
Ovviamente me lo ha detto lei quando, più grande, imbastiva i racconti sulla mia infanzia. Ed io allora volevo che me la ricantasse, ogni volta commuovendomi.
Ninnà, ninnà, ninnà bel bambolino, se dormi cucirò un camiciolino.
Lo cucirò col filo bianco e rosa, e in dono lo darò alla tua sposa
Mi piaceva talmente tanto che da grande da questa ninna nanna ho attinto l’ispirazione per scrivere… non ve lo dico… per comporre una canzone.
Un altra cosa che mi diceva mia madre è che ero esageratamente pauroso, se uno mi faceva solo <buh> per gioco, cominciavo a piangere e a nascondermi. Mi racconta che ero soprattutto spaventato nel vedere una cosa all’improvviso, specialmente se era una cosa che non faceva parte del mio ambiente abituale. Questo problema me lo sono portato avanti col tempo e negli anni corrispondenti vi racconterò alcuni episodi che testimoniano questa fobia. Le mie paure sono sempre accompagnate da sensazioni particolari che spesso presagiscono un evento. Non ho mai approfondito la questione con uno psicologo, perché ho sempre cercato di analizzarmi da solo. Non so se ho fatto bene, ma ne riparleremo.
Un pomeriggio di novembre mi viene all’improvviso un febbrone. A casa papà non c’è e il nostro medico non risponde al telefono. Mamma, è disperata e non sa cosa fare. Istintivamente riempie la vasca da bagno di acqua fredda, mi spoglia e mi immerge completamente. La febbre comincia a calare. Il giorno dopo, quando finalmente viene a visitarmi, il dottore dice a mia madre che era la cosa più giusta che potesse fare ed è come se mi avesse dato la vita per la seconda volta.
E non solo questo. Un altro giorno sto giocando sul pavimento del soggiorno, che chiamavamo <il salotto>, al centro del quale era appeso un lampadario di vetro a foglie larghe. Mamma non fa in tempo a chiamarmi appena in tempo per la merenda che il lampadario si stacca dal soffitto e precipita in terra, frantumandosi in mille pezzi.
Se sei in buoni rapporti con la fortuna, puoi campare anche cent’anni. Continua…

3° capitolo. 1940 I MIEI GENITORI
Ormai cammino spedito, comincio addirittura a formulare qualche frase di senso più o meno compiuto e cresco a vista d’occhio, naturalmente per chi ci vede benissimo. Sono un po’ schizzinoso nel mangiare e questo purtroppo me lo porterò avanti per tutta la vita.
Neanche di quest’anno ho molto da raccontare, per cui approfitto per presentarvi i miei genitori: mio padre si chiama Alberto, veneziano, figlio unico, ma forse no, ne riparleremo nel 2019, è stato un apprezzato poeta futurista, pubblicato da
Marinetti. E’ laureato in ingegneria chimica, ma, esclusi i primi due anni in cui ha lavorato alla Richard Ginori come chimico, non ha poi mai più praticato la sua vera professione.
Dopo aver lavorato alla Transadriatica e successivamente all’ARAR di cui vi parlerò a tempo debito, è stato dirigente del Poligrafico dello Stato, fino all’età della pensione. Ha l’hobby della montagna e ogni anno in agosto sparisce per un paio di
settimane. Da pensionato si è dedicato alla Biblioteca del Club Alpino Italiano, che oggi porta il suo nome, ed è stato presidente del CAI fino ai suoi ultimi giorni.
Mia madre, Matilde, invece è pugliese di San Severo, casalinga, cuoca straordinaria, orecchiette e cavatelli a piovere, ma aveva sempre sognato di fare la cantante lirica, in realtà senza mai provarci seriamente. Ha una bella voce da soprano, squillante, con una risata contagiosa personalissima. Portarla a teatro a vedere una commedia brillante è gratificante per la compagnia: con le sue risate, assicura il successo dello spettacolo: Tutti ridono appresso a lei. Con me la sua bella voce la usa solamente per sgridarmi, quando ne combino qualcuna.
Mamma soffre di una disfunzione alla ghiandola ipofisaria, per cui è obesa. Ha trascorso la sua vita ad impegnarsi in diete dimagranti. Era sotto cura di due luminari della medicina di quei tempi, il prof. Nicola Pende e il prof. Cesare Frugoni,
ma non riusciva a perdere un etto di peso nemmeno digiunando. Il prof. Frugoni, fra i tanti tentativi, le propone di provare a portare avanti una nuova gravidanza. Lei lo fa, naturalmente con la partecipazione straordinaria di mio padre, ed io sono il
risultato del suo esperimento. Neanche questo serve a nulla. Si diverte a raccontarmi, ridendoci sopra, che dopo qualche tempo è tornata dal prof. Frugoni, con me in braccio, e consegnadomi a lui gli ha detto: caro professore adesso questo fagottello se lo tiene lei!
Continua…

4° capitolo. 1941
Nulla di particolare da essere ricordato, se non il fatto che inizio ad essere più consapevole di avere un fratello ed una sorella. Leonardo che ha dieci anni e Assunta Maria, o meglio Tunni , come ha deciso lei di farsi chiamare, che ne ha dodici. Loro sono troppo grandi per me o meglio sono troppo piccolo io per loro, e quasi non mi considerano, almeno è questa la mia sensazione. Hanno i loro amici coetanei ed io per loro sono solo un rompiscatole.
Mia sorella è molto carina ed esuberante, ma soprattutto è un’artista, o come si dice ha le “mani d’oro”. Dipinge, fa dei lavori a inchiostro di china, sotto la guida di mio padre, sa tagliare e cucire e si fa i vestiti da sola, e ora sta anche imparando a
lavorare la terracotta.
Poi per tutta la vita ha fatto l’artista, a volte …incompresa, sbizzarrendosi in ogni forma di arte: comunque è molto brava e ancora oggi a casa ho tanti suoi quadri. Si arrabbia quando io metto le mani sulle sue cose, perché è molto ordinata e guai a
spostarle qualcosa.
Mio fratello invece è più tranquillo, non molto espansivo; va giù in cortile a giocare con i suoi amici e insomma si fa i fatti suoi. Con me è di poca compagnia. Ma è sempre stato pacato in tutta la sua vita e tuttavia, senza essercelo mai detto, ci
siamo sempre voluti molto bene.
Fa parte della famiglia anche un cagnolino, che ha solo qualche mese più di me, sempre allegro e scodinzolante. E’ un volpino, candido e pelosissimo, che si chiama Lulù, un nome da cagnetta, invece è maschio. Non che mi piacciano tanto i volpini, ma questo ho trovato… E’ la passione di mia madre. Lei lo chiama tartufello, perché sostiene che il suo naso sembra un tartufo. Io non sapevo nemmeno cosa fosse un tartufo.
Mi diverto ad aiutare mia madre a fargli il bagno, anche se a Lulù non piace per niente; mi diverte perché quando è bagnato diventa magro magro e poi quando lo asciughiamo col fon, pian piano il suo pelo si gonfia e diventa come un grande
batuffolo di ovatta.
Porto in me l’immagine di mia madre, eternamente vestita di nero, seduta in poltrona con Lulù in braccio, bianchissimo, sempre proteso in avanti col suo musetto a controllare ogni movimento e pronto ad abbaiare disperatamente appena
qualcuno si fosse azzardato a suonare il campanello di casa.
Insomma anche lui è un grande rompiscatole, ma anche un ottimo compagno di giochi. Ha vissuto per 17 anni e mezzo ed è stato parte importante della mia vita.
Poi ho uno zio, un fratello di mamma, che non abita con noi, ma è come se fosse così, perché lo vedo sempre girare per casa, zio Ciccillo.
Infine c’è una signora che vive con noi, Pierina. Si occupa principalmente di me, ma in realtà è una sorta di tuttofare; mia madre con la sua mole, pur essendo molto attiva e sorprendentemente agile, non gliela farebbe a tirare avanti la casa da sola,
con tre figli. Ha quasi quarant’anni, ed ha un bambino della mia età, che abita da sua sorella. Tonino, questo è il suo nome, ogni tanto viene con la zia a trovare la mamma, e giochiamo insieme.
Pierina è sempre alla ricerca di un fidanzato che la voglia sposare e che possa dare un nome a suo figlio, che, non so com’è, assomiglia tanto a mio zio Ciccillo.
Continua…

5° capitolo. 1942 S.ANTONIO
Un giorno un signore viene a casa per consegnare non so cosa, mentre io sto giocando per conto mio nell’ingresso. Mi chiede quanti anni ho. Io rispondo 4. Questo momento, in sé insignificante, per me è invece importante perché è il momento in cui nella mia memoria cominciano ad imprimersi i primi ricordi.
Si accendono dei flash sul primo viaggio della mia vita. In estate i miei decidono di organizzare questo viaggio nel nord Italia, in treno. Ho un chiaro ricordo di una gita in vaporetto sul Lago di Garda, mentre guardo dalla plancia la sala macchine
attraverso un portellone semiaperto, incuriosito dal rumore e da tutti quei pistoncini che si muovono in continuazione. E anche di alcuni giorni trascorsi in montagna dove dormivamo in un rifugio. Non avevo idea in che posto fossimo, ma
poi ho saputo che eravamo stati a Passo Rolle e a San Martino di Castrozza. Ho delle immagini di Padova, della Chiesa di S. Antonio e della reliquia della mandibola del Santo, custodita lì su un altare: mi fece una strana impressione. Poi, pensate, che
quella reliquia, durante un pellegrinaggio che la portò in adorazione in giro per tutta l’Italia, per uno strano magheggio di mia madre, che, per impietosire il parroco della nostra chiesa, si diede malata, esercitò tutta la sua incomparabile capacità di
persuasione, fino a farla arrivare a casa nostra, nel nostro soggiorno, destando l’ammirazione e suscitando l’ossequio di tutto il vicinato.
Ricordo infine che la nostra vacanza, prima di tornare a Roma, si conclude a Venezia. E qui mi è sorto un incubo che mi sono portato dietro per tanto tempo. Infatti per molti anni ho avuto il terrore di tornare in piazza San Marco, come se
qualcosa mi avesse turbato, senza capire cosa potesse essermi successo. Ne parlavo spesso con mio padre, ma non capiva nemmeno lui questo mio stato d’animo da cosa potesse derivare. Sono spaventato dall’idea di rivedere la facciata della Basilica. Solo dopo diversi anni, tornando più volte a Venezia, ho potuto scoprire cosa avesse potuto suscitare in me tanto terrore, e proprio chiedendo ad alcuni parenti veneziani di aiutarmi a capire perché la basilica mi potesse provocare delle angosce, ho finalmente realizzato cosa era accaduto nel mio subconscio.
Quando, nel 1942, c’ero stato, eravamo nel pieno della II Guerra Mondiale e le cupole d’oro di San Marco erano state coperte con dei teli per non attirare le attenzioni delle forze aeree nemiche. Io nemmeno sapevo dell’esistenza delle
cupole, ma evidentemente questa curiosa copertura, che avrò intravisto con la coda dell’occhio, senza rendermene conto, si è insinuata nei miei ricordi confusi, creandomi un alone di mistero e quindi uno stato d’ansia.
Ora, ogni volta che torno a Venezia, riesco sì a godere l’insieme della bellezza di questa magica piazza, ma qualche volta riemerge quella strana sensazione che ho tenuto dentro per tanti anni.
Continua…

6° capitolo. 1943 BOMBARDAMENTI
Ora i ricordi cominciano ad affollarsi. Siamo in piena II guerra mondiale e i continui allarmi aerei, con le sirene spiegate, creano momenti di tensione e di panico. A me, inconsapevole di quanto stesse accadendo, il suono delle sirene destava una
bizzarra emozione, un misto di terrore, nel guardare l’espressione dei miei genitori, e di gioia perché sapevo che, nel ricovero nel quale ci saremmo rifugiavati, che si trovava sotto il mio palazzo, avrei trovato altri bambini con i quali poter giocare e
chiacchierare. Beata incoscienza. Abitiamo, in via Etruria, davanti alla Caserma dove è ubicata la Direzione di Artiglieria e quindi siamo veramente a rischio, ma, escluso il crollo di un capannone, che si vede proprio dalle mie finestre, sotto il quale sono ricoverati dei cannoni, crollo non dovuto ad una bomba, ma dall’errata manovra di un camion che prende in pieno uno dei piloni portanti, per fortuna non accade nulla di pericoloso. Proprio nel periodo dei bombardamenti su Roma un giorno si è visto, sempre dalla mia finestra, il fumo provocato dalle bombe sganciate nel quartiere di San Paolo, perché attraverso la caserma e la ferrovia si apre uno scorcio che mi permette di sconfinare con lo sguardo fino all’Eur. Quel giorno mio padre non è in casa e mia madre sa che doveva andare proprio in via Ostiense. Ci sono dei momenti di panico.
Ma tutto finisce bene perché papà, all’ora del bombardamento, aveva già lasciato la zona.
Con un anno di anticipo sui tempi canonici i miei decidono di farmi iniziare gli studi. Mandarmi a scuola pensano però che possa essere pericoloso. Così mi affidano ad una maestra in pensione che abita due piani sopra di me, la signora Selan. Vado da lei tutti i giorni per tre ore di lezioni e questo per le prime tre classi elementari. Ogni anno però devo sostenere un esame di stato perché mi venga riconosciuto l’anno scolastico. Gli esami non finiscono mai, ma per me forse sono cominciati un po’
troppo presto. Comunque questa maestra è un po’ troppo accondiscendente. Basta che le dica che sono andato a passeggiare all’aria aperta che mi dispensa dal fare i compiti. Per me è una pacchia, ma poi fatico ogni volta a riguadagnare il terreno perduto. E’ fissata per la calligrafia, mi fa scrivere in continuazione perché vuole che io migliori la mia scrittura, e per stimolarmi mi fa vedere in continuazione i quaderni del figlio che sono con una grafìa perfetta. Lo odio! Però mi è rimasto, da questo insegnamento, il piacere di scrivere con chiarezza, accorgendomi che le cose scritte bene sembra che abbiano dei contenuti migliori. L’estetica dello spettacolo, quando la forma è anche sostanza.
Continua…

7° capitolo. 1944 FISARMONICA
Il ‘44 segna il mio primo approccio con la musica. Mi regalano una piccola fisarmonica, di quelle da bambini con pochi tasti, sulla quale tento di muovere, diciamo, i miei primi passi, con le dita.
Mi piace molto e ci trascorro tanto di quel tempo a strimpellarla, che riesco finalmente ad imparare a suonare una canzone intera. Con quella mi esibirò a Natale al cospetto dei miei familiari ed alcuni parenti. Un successo. Anche se per l’emozione incorro in un sacco di errori, che riesco però a mascherare facendoli passare come variazioni volute.
Evidentemente ho già il senso dello spettacolo.
La canzone che avevo imparato era un successo del momento. La Paloma.
Durante i momenti più critici della guerra si cerca in qualche modo di allentare la tensione organizzando dei pomeriggi di ballo. E’ mia madre ad invitare le persone, di solito la domenica pomeriggio, a casa nostra, anche perché noi possediamo un bel grammofono Telefunken, con un altoparlante molto grande (lo stereo non si sapeva nemmeno cosa fosse) e una buona collezione di dischi a 78 giri, sia da 10 che da 12 pollici di diametro. Non so da dove provengano, ma c’è un mobile fatto apposta per tenerli tutti in verticale. Io sono addetto al cambio delle puntine d’acciaio che leggono i dischi e non appena sento che il suono comincia a rovinarsi, so che devo intervenire io. I miei fratelli hanno invece il compito di scegliere i 78 giri da mettere sul piatto. Alternano gli slow con i fox-trot, con Natalino Otto e Walter Beltrami in grande spolvero, e negli intervalli del ballo a volte poggiano sul piatto i 78 giri più grandi, che contengono musica classica. A me piacciono tanto la Gazza Ladra di Rossini e il Bolero di Ravel. Non entrano tutte in una facciata e a metà sinfonia bisogna girare il disco. Poi, crescendo sono diventato, oltre che cambia puntine, il DJ di casa. Quei dischi, almeno quelli che sopravvivono all’uso senza spezzarsi, hanno i solchi consumati per le volte che vengono usati.
Sapeste quanto spesso mi sono chiesto come potesse uscire un suono da quei solchi. Non mi capacitavo che un cantante potesse cantare in uno studio e che la sua voce finisse poi in un solco di una superficie di resina di gomma lacca e che da quel
solco, percorso da un pick-up, che doveva pesare non più di tanto, una puntina d’acciaio strusciando riattivasse il suono, mantenendo inalterate tutte le intenzioni dell’esecutore e anche i suoi sospiri, per finire a sua volta in un amplificatore collegato con un altoparlante di cartone, dal quale riprendeva vita tutto quello che era successo nello studio, o quasi. E anche quando me lo hanno spiegato per bene, per me tutto ciò è rimasta una grande magìa. Per cui oggi non mi va nemmeno di
pensare a quello che si mette in moto da una chiavetta inserita in un computer… prima almeno il meccanismo era visibile, agiva sotto i tuoi occhi.
Io c’ero.
Tutto quello che mi va di ricordare dal 1938 ad oggi
Qualche tempo dopo, a casa, in camera da pranzo, che è una sala abbastanza
grande, allestiamo un piccolo teatro, con una platea per 25/30 persone che si
sarebbero potute sedere su delle sedie, delle panche e dei pouf.
Funge da palcoscenico un tappeto, che delimita lo spazio della scena, e sipario,
quinte e fondale sono realizzati con coperte, lenzuola e copriletto del corredo di
casa. Due sedie, un tavolino e un lume completano la scenografia. Il “cartellone”
prevede uno spettacolo di arte varia, sotto la rigorosa regìa di mio padre.
Il giorno che precede il grande evento teatrale è dedicato al montaggio del
palcoscenico e alla sistemazione dei posti a sedere, mentre la sera, alla prova
generale. Nei giorni addietro avevamo già fatto altre prove, ma senza il
palcoscenico.
E arriviamo così alla serata. I miei fratelli ed alcuni loro amici interpretano una breve
commedia comica (almeno credo: ridevano tutti!), trascinati soprattutto dalla risata
contagiosa di mia madre, piazzata in prima fila, quando ad un certo punto della
recita esco io, tutto vestito di rosso, per declamare una poesia cha ha a che fare con
Cappuccetto Rosso. Ancora oggi al pensiero avverto l’ansia di quella sera prima che
toccasse a me. In un’altra scena eseguo alla fisarmonica La Paloma, il mio cavallo di
battaglia. Anche Pierina, la mia tata, partecipa alla commedia: deve dire in un
determinato momento <il pranzo è servito>. Alla fine della recita mio padre, che non
aveva mai provato la sua parte con noi, facendo dei suoni gutturali tipo glu glu glu,
tric tin trac ed altri, con voce chiara e forte ed un bicchiere di acqua in mano,
comincia a proferire delle frasi per me incomprensibili e delle strane parole che non
avevo mai sentito pronunciare prima, nemmeno alla radio.
Era un’assoluta novità vedere mio padre, di solito così cupo, in una veste bizzarra.
Il pubblico applaude a lungo e fa complimenti ad alta voce. La mamma – mi spiega
sottovoce – che papà ha appena finito di declamare una sua poesia futurista, scritta
da ragazzo.
Quando il pubblico di amici va via e cominciamo a smontare le scene, mi viene un
groppo alla gola e mi dispiace proprio tanto che sia tutto finito.
Nell’estate quando le truppe alleate entrano a Roma, più di trecento soldati
prendono alloggio nella caserma di fronte a casa, alla Direzione di Artiglieria e c’è un
via vai continuo di militari che entrano ed escono dalla caserma e sempre un
capannello di curiosi fuori dal cancello, affascinati da questi bei ragazzoni, un po’
spavaldi. I miei fratelli, Leonardo ha 14 anni e Tunni 16, stringono amicizia con tre di
loro, sicuramente per merito di mia sorella che è sempre più carina, e li invitano a
pranzo a casa nostra. Accettano volentieri l’invito, alquanto sorpresi. Solo papà
conosce qualcosa di inglese, ma questi ragazzi sono così vivaci, e mamma è talmente
ospitale e cucina così bene, che si crea subito un’atmosfera di grande convivialità.
Ci portano in regalo tante tavolette di cioccolato, buonissimo, caramelle, quelle con
il buco al centro, e chewing gum. Più che conversazioni a pranzo ci sono battute,
risate, espressioni di sorpresa, apprezzamenti.
Io c’ero.
Tutto quello che mi va di ricordare dal 1938 ad oggi
Dopo qualche tempo tornano a pranzo una seconda volta, la cucina di mia madre
deve aver fatto colpo, e in quella occasione ci invitano, me compreso, per il giorno
dopo, ad andare in caserma per assistere ad un concerto jazz.
Io del jazz so ben poco, In Italia non è molto conosciuto, ma sono emozionatissimo
all’idea di poter vedere e ascoltare un’orchestra dal vivo. C’è tantissima gente nel
capannone, dove stanno per esibirsi i jazzisti, tutti militari. Tra il pubblico ci sono
soldati, comandanti, civili e tante ragazze entusiaste e io non vedo l’ora che
comincino. Rimango fulminato nel sentire per la prima volta il suono di una tromba,
quello di un trombone, di un sax e di un clarinetto così da vicino e sono estasiato nel
vedere una batteria piena di tamburi e di piatti disseminata su una pedana alta, con
dietro uno che la scuote forsennatamente. Un’esperienza fantastica..
I soldati qualche giorno dopo sono ripartiti e la caserma pian piano è andata
malinconicamente svuotandosi.
Continua…