Decise il sommo Zeus che Teti, rifiutata da Poseidone perché era scritto che il frutto delle sue doglie avrebbe superato per fama il padre, andasse in sposa a Peleo, il migliore tra gli uomini.
Ma non fu facile.
Il mare attendeva le nozze lungo una spiaggia, vuota di passi, coperta di conchiglie, rossiccia d’alghe.
La scarpata girava in tondo, allargandosi tra ciuffi di mortella e finocchi selvatici. C’erano uccelli di passo e volpi in abbondanza.
All’orizzonte le isole non si erano del tutto arrestate.
Quasi al centro del piccolo golfo si apriva una grotta, rifugio di caprai e offerte al dio scuotitore. Lì, stava nascosto Peleo in attesa che la ninfa s’incamminasse lungo la spiaggia.
La vide giungere sopra un delfino, scivolare dalla groppa e dal muso, restando in piedi, ferocemente bella.
Un profumo di cose speziate e amare gli salì al cervello, quasi intontendolo.
La dea camminava sulla spiaggia come fa un soffio di vento. Allora, Peleo strinse le spalle, gonfiò i muscoli e saltò fuori, cercando di essere più veloce.
Lei vide un’ombra alle spalle, si lasciò avvinghiare. Non fece resistenza.
L’avrebbe affrontato dentro il santuario, al buio.
Bastò un attimo di incertezza, di umano stupore di fronte alla carne divina, e Teti prese a cambiare di forma.
Dapprima fuoco, poi acqua, poi leone, di nuovo acqua fiammeggiante e infine seppia.
Così che Peleo, abbracciando l’abissale creatura, avvinto in lei, con lei, tutto fu tinto d’inchiostro.