di Nicola Dal Falco
Foce – Cercate in piena estate il pomeriggio ventoso, l’aria satura di particelle d’oro, l’ombra azzurra del monte Amiata e la buona frenesia delle rondini. Allora, meglio se verso sera, al primo arpeggiare delle ombre, entrate nel giardino di Villa La Foce.
Il termine, in Toscana, equivale a valico e questo è il punto di congiunzione tra la Val d’Orcia e la Val di Chiana.
Una volta, la strada che le collegava passava dinnanzi al vecchio edificio dell’Ospedale di Santa Maria della Scala che ospitava pellegrini e viaggiatori sulla strada per Roma.
Venne eretto in tempo per il Giubileo dell’anno 1500 e trasformato a partire dal 1924, quando fu acquistato dai marchesi Origo.
Antonio e Iris* Origo iniziarono un’opera monumentale in cui la trasformazione in senso agricolo di terre poverissime e la costruzione di un giardino rappresentavano i lati riflettenti di un medesimo specchio.
Da una parte il quieto ordine delle aiuole e delle siepi, dall’altra il giusto ritmo di una campagna rifondata, civilizzata.
Due mondi che si sarebbero influenzati a vicenda, creando un paesaggio dell’anima, regolato sulla volontà e la bellezza. Qualcosa che nell’immaginario poteva avvicinarsi sia agli affreschi del Buon Governo di Siena, sotto cui era e rimane La Foce, dove la vita fuori dalle mura disegna una mappa umanissima e laboriosa, sia all’idea più intima dell’hortus conclusus, grembo di virtù naturali e spirituali.
Questo paradigma, nelle sue linee generali, è ancora sotto gli occhi di quanti giungano fin qui per assaporare una porzione delicatissima dell’Italia, giardino essa stessa.
Il mio incontro con il giardino Origo è avvenuto in compagnia di Sibylla Holtz che da qualche anno conduce le visite a Villa La Foce.
Il luogo che scegli o ti sceglie
Sibylla rappresenta un esempio riuscito di adattamento al paesaggio se per paesaggio intendiamo un’appendice del tempo che ognuno ha a disposizione. Il tempo del luogo che scegli o ti sceglie. D’altra parte, avere del tempo a disposizione, non significa automaticamente né riuscire a farlo fruttare né sprecarlo ad arte. È un gruzzolo, una spinta, un’opinione che può evolvere in un capitale, una direzione, una visione delle cose o restare un nulla.
Probabilmente, il piccolo segreto dell’equazione tempo-vita-luogo sta, ancora una volta, nel gesto, nel come. Sibylla dipinge sulla seta e questo fatto ha una sua importanza. Ha iniziato subito dopo il diploma d’arte e da allora la doppia magia della materia scelta e del pennello carico di colore continua a incantarla.
Immaginiamo una pezza di seta, prima bagnata perché diventi elastica, poi fissata sopra un telaio in modo che, asciugando, entri in tensione. Un campo rettangolare, un quadrato o una striscia lunga e stretta, di un bianco candido, attende la prima mossa, il primo svirgolare del braccio.
A definire vuoti e pieni, tracciando il disegno, ci pensa l’oro. I bordi dipinti in questo modo danno un rilievo particolare alle cose, serrate in una rete di luce e al tempo stesso sollevate in un altrove.
La profondità dell’oro
«L’oro – precisa Sibylla – appartiene e non appartiene allo sfondo e alle forme. Una volta definita l’immagine, la mano aggiunge i colori e inizia o meglio continua la danza, presa nel tatto tra il movimento del pennello che non gratta, non fa rumore e la superficie impalpabile della seta.
«Allora, così come nel mare di colline che ho di fronte anche nel paesaggio dipinto entrano il vento e i colori».
La bontà del caso vuole che la guida e la pittrice vivano a breve distanza, dividendo nel migliore dei modi le ore consacrate alle visite e quelle in cui prendono vita i foulard e gli arazzi dipinti a mano.
Anzi, forse, è un filo di seta, teso come una fune da circo, a collegare la casa nel borgo medievale al giardino Origo. Siamo sempre nella stessa proprietà, ospiti della stessa icona.
Sono tantissime le storie che si rincorrono e illuminano La Foce. Ascoltarle durante la visita è un’emozione il cui clic scatta, inderogabilmente, appena si passa l’arco verde che separa il primo giardino dal giardino dei limoni.
Poi, la scena, concepita dall’architetto Cecil Pinsent e portata a termine tra il 1924 e il 1939, conquista ogni passo. Prima, accordando lo sguardo al bisogno di geometria, lieve, intimista, ragionevole, fino al diapason del giardino formale inferiore.
Laddove, forse, la doppia scalinata, l’ordine poligonale delle siepi, lo spazio in pendenza, le quinte di cipressi tronchi, sprofondano oltre i riflessi dello specchio e alla vista di fuori si volta le spalle come succede alla statua dell’Estate.
«Il giardino formale inferiore – sottolinea Sibylla – ha lo stesso rapporto con l’esterno di una magnifica spilla, appuntata sulla seta di un abito».
Naturalmente, ad ogni discesa corrisponde una ri-salita e questa avviene sulla collina che domina la Villa e il giardino, il luogo alto in cui il sentiero si spinge in doppia spirale, segnando un contrappasso tra «il giardino intellettualizzato e il giardino naturalistico». Qui, è un altro dio Terminus a vegliare, impersonato da un moro che regge i frutti dell’autunno come l’altro, un europeo, porta sulle spalle le spighe e gli attrezzi del contadino.
Sibylla Holtz (sibylla.holtz@gmail.com)
*Iris Origo è l’autrice di molti libri tra cui Guerra in Val d’Orcia, Il Mercante di Prato e dell’autobiografia Immagini e Ombre, tutti editi da Longanesi